Bio
Contraddistinguendosi per una modalità progettuale dalla forte e chiara identità, Gamper (nato nel 1971 a Merano) lavora da sempre al confine tra arte e design, interessandosi di sovente agli aspetti psicologici e sociali di quest’ultimo: le sue creazioni sono spesso la sintesi delle storie dei materiali, delle tecniche, delle persone e dei luoghi che si nascondono dietro il prodotto finito.
Interview
“Brera è un posto molto speciale per me”.
Nicola Ricciardi – Cosa significa per te la frase “Design is a state of mind”, che è anche il titolo di una tua recente serie di mostre alla Serpentine di Londra, alla Pinacoteca Agnelli di Torino, e al Museion di Bolzano?
Martino Gamper – “State of mind” si riferisce al nostro modo di guardare al design e di farne esperienza—in questo caso nel contesto di una mostra. Ho voluto che fosse un’esperienza molto personale, ma anche un’esperienza attiva piuttosto che passiva. Sono interessato a come le persone rispondono a una mostra, e a ciò che una mostra può innescare. Volevo creare una narrazione intorno agli oggetti e alle collezioni che ho raccolto.
N.R. – Il tema dell’edizione del Brera Design District di quest’anno è “Progetto Forma Identità”, e nasce dalla volontà di indagare la centralità della pianificazione e della progettualità nella creazione e nel consolidamento di un’identità. Quanto è stata importante per te questa cultura del progetto nello sviluppo del tuo lavoro?
M.G. – Non ci sarebbe nessun design senza quella che tu chiami cultura del design; altrimenti parleremo di ingegneria o di qualcos’altro. La creazione di un’identità è una parte molto importante del lavoro del designer: è quel creare la curiosità che permette di andare oltre la semplice pianificazione. Nel mio caso, la ricerca di identità ha fatto parte del mio lavoro fin dall’inizio, e ne fa ancora parte, in quello che faccio tutti i giorni.
N.R. – Partendo dal presupposto che non ci sia identità senza progetto, si potrebbe dire che quel che unisce le due espressioni di questa equazione è proprio la formazione: la ricerca, l’apprendimento, la conoscenza. Quanto ha influito nel tuo presente lavoro l’educazione che hai ricevuto da ragazzo (ad esempio studiare sotto Ron Arad al Royal College of Arts)?
M.G. – La RCA è stato un posto incredibile per me, che mi ha permesso di collegare apprendimento e gioco. Ron è riuscito a mettere insieme un incredibile mix di designer e insegnanti. E ‘stato anche il luogo in cui ho riscoperto il mobile, e dove ho meglio capito la mia identità come designer.
N.R. – Parlando di processi di formazione, qual è il tuo rapporto con la storia del design italiano? Nel progetto “100 sedie in 100 giorni”, hai (anche) decostruito opere storiche realizzate da importanti designer: era un modo per sbarazzarsi della Storia o, al contrario, una presa di coscienza della sedimentazione—a volte anche inconsapevole—del design del passato negli oggetti di tutti i giorni?
M.G. – La Storia a volte può essere un limite importate, in particolare in un paese come l’Italia dove ce ne è così tanta. Ho voluto ri-lavorare alcuni di quei pezzi in modo da “digerire” la loro storia, attraverso però la creazione di qualcosa di nuovo.
N.R. – La tua produzione e il tuo approccio hanno spesso uno stile riconoscibile proprio perché volutamente ibridi e sfuggevoli a facili categorizzazioni: a volte vieni chiamato designer, a volte artista. Quali sono i limiti e quali le opportunità di lavorare in questo spazio di confine? C’è una gerarchia tra i due mondi?
M.G. – Mi considero un designer, ma il mio modo di lavorare e di pensare è molto simile a quello di un artista. Non credo nella gerarchia arte-design-artigianato. Il mio lavoro si basa molto sul muovermi a ridosso di queste restrizioni creando allo stesso tempo nuove possibilità. Ma penso anche che la creatività e le idee non siano legate a una dimensione specifica: mi piace lavorare in parallelo con la sfera autonoma della creazione artistica e con la cultura della produzione di massa tipica del design; entrambe queste dimensioni mi insegnano qualcosa di nuovo sul mondo ogni giorno.
N.R. – Infine, qual è il tuo rapporto con il territorio? Sei nato a Merano, vivi a Londra, dove hai studiato; prima c’è stata l’Accademia di Vienna, ma anche Milano, dove hai fatto un’esperienza di due anni nello studio di Matteo Thun. Dove ti senti più a casa? E qual è il tuo rapporto con Milano, e con il quartiere di Brera in particolare?
M.G. – Vivo e lavoro a Londra, e ho vissuto in molte città e luoghi diversi; ma la vera casa è in montagna, gli altri luoghi sono solo alloggi transitori. Il mio rapporto con Milano è molto di amore e odio. Proprio come quello dei milanesi in generale, che amano la loro città ma ne sono al tempo stesso insofferenti. Detto questo, Brera è un posto molto speciale per me.